La realtà riminese dei senza dimora

(a cura di Andrew Dylan Gasperoni)

Introduzione

Nei mesi di Novembre e Dicembre 2014 è stata realizzata una ricerca sulle persone senza dimora presenti sul territorio riminese.

Questa ricerca si è posta come obiettivo quello di tracciare un profilo delle persone prive di abitazione al fine di conoscere più a fondo le realtà di coloro che si rivolgono a Enti per chiedere assistenza.

Sono stati somministrati dei questionari a risposta chiusa a 65 persone senza dimora presso 3 punti in cui essi possono trovare un pasto caldo, la possibilità di farsi una doccia o un letto dove dormire. (Caritas diocesana, Mensa dei Frati, Capanna di Betlemme).

Gli intervistati sono stati selezionati grazie ad un campionamento probabilistico, ossia cercando di intervistare persone casuali, alle quali veniva chiesta la disponibilità all’essere intervistati su domande che vertevano sulle loro abitudini settimanali (ossia dove pranzavano, dove cenavano e dove dormivano), sulle relazioni familiari, sulla condizione lavorativa e sullo stato della propria rete di relazioni sociali.

Veniva chiarito, infine, che la partecipazione all’intervista era gratuita, previa domanda riguardante la loro condizione abitativa: in caso di mancanza di fissa dimora si è proceduto col colloquio.

Conosciamo i senza-dimora

Il campione per Sesso

Il campione intervistato (65 persone) presenta una predominanza di uomini (78%) rispetto alle donne (22%): infatti osserviamo come i primi siano tre volte superiori rispetto alle seconde.

Questo dato non ci sorprende vista l’oggettiva pericolosità di vivere in strada per una donna sola.

Il campione per Classe d’età

Analizzando l’età degli intervistati si nota che il 45% ha un’età compresa fra i 40 e i 50 anni: questa fascia probabilmente è una tra le più indifese nel caso sorgano problemi economico-finanziari, in quanto spesso i genitori sono morti e nel caso non si sia riusciti a sostenere una relazione stabile con un partner o questa sia cessata, ci si trova completamente soli.

Il campione per Cittadinanza

Analizzando la cittadinanza si osserva come il 60% del campione sia straniero, dato difforme da quelli diffusi dal Centro di Ascolto che registra una presenza di stranieri del 70% ma, se si sovrappongono questi dati a quelli dei servizi offerti dalla stessa Caritas, corrispondono: in quanto, normalmente, alla mensa Caritas sono presenti il 40% di italiani ed il 60% di stranieri.

Il campione per Titolo di studio

I dati relativi al titolo di studio dei soggetti della ricerca rivelano come la maggior parte di essi abbia il diploma di scuola media inferiore; mentre solo 5 di essi, pari all’8%, possiede una laurea breve: dunque si osserva che all’aumentare degli anni di scuola sono minori le probabilità di cadere in uno stato di povertà.

Il campione per Stato civile

Inoltre nella ricerca sono state raccolte le informazioni relative allo stato civile dei partecipanti, 31 di questi sono celibi e nubili. (Pari al 48%).Quello che può sembrare strano è che il 20% delle persone senza dimora sia coniugato; tuttavia si tratta di coniugi che non vivono insieme, in quanto l’80% di questi è straniero, per cui il partner vive in patria e non è privo di dimora.

Queste categorie anagrafiche, come l’età, il sesso, lo stato civile, il titolo di studio o la cittadinanza non sono direttamente collegate con la povertà, nel senso che un uomo straniero, di età compresa tra i 40 e i 50 anni, con il diploma di scuola media inferiore e celibe non necessariamente deve essere in uno stato di miseria. Però queste informazioni anagrafiche possono divenire rilevanti quando si presentano difficoltà di carattere economico/sociale, in quanto, come vedremo, queste ultime delineano una figura che ha meno possibilità di stringere relazioni sociali importanti per la propria tutela.

Approfondimento sulla vita di strada

Ora osserviamo i seguenti dati che mostrano da quanto tempo i soggetti dormono in strada ed anche come varia il periodo in base alla loro nazionalità.

Nel grafico qui sotto, notiamo che le persone che dormono da 6 mesi a 5 anni sono circa dello stesso numero (con un picco nei 6 mesi), mentre, superando i 5 anni, il numero regredisce.

Da quanto tempo dormono in strada

Confrontando questi dati con la cittadinanza emergono due valori interessanti:

gli stranieri sono per la maggior parte in strada per un periodo che va dai 7 mesi hai 2 anni, mentre gli italiani che son stati intervistati sono fuori casa da 3 a 5 anni.

Prendendo in considerazione i luoghi dove hanno pranzato e cenato, vediamo che c’è molta affluenza nelle mense sociali, dovuta al fatto che le interviste si sono tenute proprio presso questi posti. Ma, oltre ai molti pasti consumati nella Caritas Diocesana, nell’Opera di Sant’Antonio e nella Capanna di Betlemme, gli altri luoghi in cui mangiano i senza dimora sono: la strada, presso i familiari, nei bar e nei negozi alimentari. Significativa, però, anche la presenza di coloro che, durante la settimana, saltano uno o più pasti al giorno, perché privi di soldi anche per un panino.

Analizzando i luoghi in cui passano la notte rileviamo che un elevato numero di persone si rifugia in case abbandonate o baracche (un’ interessante sfaccettatura è rivelata dal dato dei rumeni che, in 3 casi su 10, vivono in tende in piccoli gruppi), molti dormono in strada o parchi, ma anche in stazione o vagoni del treno

Ottenute queste informazioni, incrociando il luogo del pernottamento con il sesso, scopriamo le loro abitudini settimanali, constatando che vi sono nette differenze tra uomini e donne rispetto alle consuetudini dei luoghi dove trascorrere la notte: le donne tendono a rifugiarsi presso famigliari, amici, parenti, dormitori, se hanno la possibilità in alberghi o, alla peggio, in case abbandonate o baracche; mentre gli uomini dormono prevalentemente in strada, stazione, parchi, auto o vagoni del treno.

Interessanti sono anche le differenze di modalità di approcciarsi alla notte in base alla cittadinanza: gli stranieri sono più predisposti ai luoghi all’aperto, o nel chiedere ospitalità a famigliari, amici, parenti, mentre gli italiani preferiscono rifugiarsi in stazione, case abbandonate o baracche, quando possibile in dormitori, senza però mai chiedere, forse per orgoglio, ospitalità a parenti o amici.

Successivamente sono state poste alle persone alcune domande relative alla loro precedente abitazione, ossia dove dormissero prima di finire in strada e, sia stranieri che italiani, per un 60% hanno riferito di aver abitato in una casa propria (considerando anche quelle affittate); il restante 40% è composto da un 30% di color che risiedevano presso un’abitazione come ospiti, un 7% che alloggiava presso strutture di accoglienza (scuola coranica, Caritas, casa famiglia, Centro di Salute Mentale) e da un 3% di chi, di recente, non ha avuto una dimora stabile perché badante, rifugiato in una fabbrica abbandonata o in un treno non utilizzato.

Inoltre si sono chiesti i motivi per cui sono stati costretti a lasciare la loro precedente abitazione: anche se la maggior parte riferisce di aver avuto problemi di natura economica o legati al lavoro, è rilevante il numero di coloro che sono rimasti privi di casa a causa della separazione con il partner, della morte dei genitori, per litigi con i conviventi, oppure perché hanno lasciato il Paese d’origine.

Questo mostra come la variabile economica non sia l’unica a determinare l’inizio della spirale della povertà, ma che questa si accompagna anche ad altri fattori emotivi che amplificano l’effetto negativo della già critica situazione finanziaria dovuta alla disoccupazione, creando dunque un clima di solitudine e di smarrimento.

Condizioni sfavorevoli per la ripresa delle redini della propria vita.

Il lavoro

Studiando i dati relativi alla condizione lavorativa delle persone senza dimora, si nota che la maggior parte non ha un’occupazione e che, quelli che lavorano, svolgono attività precarie o saltuarie.

Persone che lavorano

I settori lavorativi sono vari, accomunati dalla tipologia di lavoro, ossia un lavoro di bassa qualifica e di mera manovalanza, quindi non necessitanti di un titolo di studio.

Queste mansioni vengono svolte prevalentemente in fabbrica, in campo edile, nell’assistenza alla persona (per le donne), nel campo della ristorazione, del commercio ambulante, dell’agricolutura, mentre alcuni fanno, semplicemente, i parcheggiatori.

I giorni lavorativi vanno da un minimo di 4 a un massimo di 30, ma la media lavorativa è di 11 giorni al mese; il guadagno medio mensile è di 300 euro.

Prendendo in considerazione la loro precedente vita (cioè prima di trovarsi in strada), e le tipologie dei lavoro svolti: vi è una tendenza a reiterare, con qualche particolarità, le mansioni prima elencate in quanto circa il 70% degli intervistati aveva precedentemente un’occupazione nel campo del artigianato edile o agricolo, o in campo commerciale, nei servizi alla persona (magazziniere, tassista, cameriere o badante).

Vi è, però, un 20% (composto da 11 persone) che ha dichiarato di essere stato un operaio o un operaio specializzato, cioè di svolgere funzioni quali elettricista, meccanico o fabbro.

Infine un ulteriore 6% esercitava una professione intellettuale ad alta competenza come insegnante, ingegnere o musicista professionista.

Procedendo nell’analisi del loro passato, abbiamo rilevato il tempo trascorso da quando sono in strada a quando hanno terminato il loro lavoro ed è emerso che il 26% ha perso il lavoro molto tempo prima rispetto al periodo in cui si trova senza dimora; questo conferma l’ipotesi che non c’è una netta corrispondenza tra perdita del lavoro e assenza di casa.

Il 70% del campione che attualmente è privo di lavoro l’ha perso mediamente 4 anni fa, periodo in cui la crisi si è maggiormente manifestata sul nostro territorio.

Le persone intervistate hanno dichiarato di aver svolto il proprio lavoro dai 7 ai 20 anni, quindi per un tempo considerevole della loro esistenza, ciò è dovuto anche alla media dell’età dei soggetti compresa fra i 40 e i 50 anni.

La perdita del lavoro è stata prevalentemente causata da: licenziamenti o cessazioni delle attività aziendali, seguita dal fallimento della propria attività, da motivi di salute, da problemi con sostanze stupefacenti; in minor misura le altre motivazioni sono state: il raggiungimento dei limiti d’età, le situazioni di povertà o conflitto del proprio Paese, la detenzione, il prendersi cura della propria famiglia, un incidente che ha portato all’invalidità.

Situazione familiare

Ben 55 soggetti su 65 vivono per conto proprio, mentre i restanti 10 rispondenti si suddividono una metà equamente fra quelli che vivono con il loro coniuge/partner senza figli e quelli che vivono presso amici.

Sebbene una così alta percentuale viva da sola, il 67% di essi ha dichiarato di aver avuto in passato un coniuge/partner con il quale conviveva e più del 50% ci ha trascorso da 5 a 14 anni.

Proseguendo nell’analisi, come illustra il grafico qui sotto, metà degli intervistati ha avuto figli, ma non essendo questi conviventi, sorgono lecite alcune domande, quali: dove siano i figli, quanto tempo abbiano vissuto con essi, ma anche da quanto tempo non li vedono.

Persone che hanno figli

La maggioranza riferisce che i figli si trovano con il partner; se si considera che il 78% degli intervistati è di sesso maschile, si riscontra che nel 90% dei casi i figli stiano vivendo con la propria madre.

I rimanenti vivono per conto proprio perché adulti o sono stati dati in affidamento ad altre famiglie.

Chiedendo ulteriormente informazioni su da quanto non li vedessero o per quanto ci avessero vissuto assieme, è emerso che un terzo di chi ha figli non vive assieme a loro da 4 a 7 anni, un quarto non li vede da più di 16 anni; il restante si divide fra un 13% che non li vede da meno di 6 mesi, un altro 13% che non li vede da 7 mesi a 4 anni e infine un 18% che non ci vive assieme da più di 8 anni fino a 15.

Inoltre emerge che sempre un terzo ci ha trascorso dai 5 ai 10 anni, un altro terzo più di 18 anni, dato che tenendo in considerazione l’età degli intervistati il dato risulta congruo.

Sempre approfondendo la loro situazione familiare si è studiato quali rapporti siano in essere con la loro precedente famiglia, cercando di scoprire se tutt’ora vi siano relazioni tali da poter contare su aiuti dalle loro precedenti relazioni.

A tal proposito si è scoperto che il 71% delle persone senza dimora è in contatto con i propri familiari e notiamo che i maggiori contatti sono in essere con fratelli, genitori e figli, mentre meno frequentemente si hanno contatti con l’attuale e/o ex partner e altri parenti come cugini e zii.

Successivamente si è indagato sulla frequenza con cui si vedevano i familiari indicati, ed è emerso che solo un 24% degli intervistati li vede almeno 2 o 3 volte in un mese; il resto li incontra qualche volta all’anno.

Una situazione migliore si riscontra se consideriamo quanto spesso essi sentano i familiari: circa il 70% resta in contatto, seppur solo telefonico, con i propri parenti.

 

Relazioni sociali

Il 71% degli intervistati ha dichiarato di avere amici e se si osserva quanti pasti in una settimana sono stati consumati presso familiari, amici o parenti, scopriamo che 77, quindi circa il 10% dei pasti totali settimanali, è stato offerto da questi contatti sociali.

Successivamente chiedendo se questi amici vivessero in strada oppure no, è emerso che solo un terzo degli amici è nella stessa condizione degli intervistati, mentre tutti gli altri sono in una situazione di benessere.

Questo dimostra che le vecchie amicizie hanno resistito nonostante la situazione attuale di miseria, anzi spesso, sono proprio questi amici che offrono sostegno, quando è possibile economico o offrendo loro ospitalità e/o vitto oppure solo, ma comunque importante, morale. I dati infatti confermano che la metà di coloro che hanno amici hanno ricevuto denaro e ospitalità, ad un terzo è stato offerto cibo e ad un quarto degli abiti.

Indagando se nell’arco dell’ultimo anno siano stati coinvolti in risse, scopriamo che 17 intervistati si sono ritrovati in questa situazione e 6 di questi erano donne. L’82% di queste risse è avvenuta in strada ed il 18% in una mensa, in un dormitorio o in una comunità.

Interessante resta il fatto che la variabile cittadinanza non influisca sulla percentuale di partecipazione ad una rissa, cioè dei 17 il 49% erano italiani e il 51% stranieri.

L’arte dell’arrangiarsi

Come abbiamo visto solo 20 persone hanno un lavoro, e per l’80% dei casi questo è saltuario, perciò sorgono domande spontanee: “Come si sopravvive in strada? Oppure, con quali soldi si riesce a comprare un pasto?”

Alla prima domanda troviamo risposta analizzando le varie fonti da cui provengano questi soldi: in tal modo notiamo che la maggior parte li riceve da amici e parenti, seguono coloro che racimolano soldi da collette elemosinando, mentre sono pochi quelli che li ricevono da benefattori tra cui anche preti e suore.

Inoltre qualche intervistato ha rivelato di guadagnare qualcosa vendendo sostanze stupefacenti, sapendo bene di rischiare l’arresto.

Spesso però anche chi è sostenuto finanziariamente da altri non ha un gettito regolare, e per coprire questi bisogni, una grandissima parte fa riferimento all’offerta di servizi proveniente dalla Caritas Diocesana, dall’Opera di Sant’Antonio e dalla Capanna di Betlemme.

Infatti, ponendo la domande relative a quali servizi usassero maggiormente, è emerso che i servizi che più vengono utilizzati sono quelli legati alla mensa (al primo posto), seguono con valori alti, luoghi in cui è possibile ritirare abiti, effettuare docce e poter dormire.

Come detto, la mensa spicca per i servizi offerti, in quanto tutte le realtà che hanno contribuito alla ricerca offrono pasti, e se da un lato pone un filtro a chi è stato intervistato, dall’altro si nota che essa (come servizio) è di fondamentale importanza nella vita di coloro che vivono in strada in quanto è la base per la loro sopravvivenza.

Inoltre, essendo ormai un punto di riferimento, è anche luogo in cui si creano relazioni e contatti fra altre persone che vivono la stessa condizione, in modo che anche l’ultimo arrivato in strada (dunque colui che ancora non ha una consapevolezza della sua condizione) può scoprire strategie e strumenti per rendere meno sofferente la sua situazione.

In più le mense sono anche occasione di incontro con coloro che prestano servizio, come volontari e operatori, il contatto con questi permette di avere possibilità di ascolto, conforto e orientamento.

Riflessioni personali

Come si può intuire l’obiettivo di questa ricerca è stato fin da subito non pretenzioso, cioè lo scopo iniziale era quello di descrivere la realtà così come è, cercando di far conoscere la difficile quotidianità che vivono le persone senza dimora.

Inoltre, essendo il campione molto ristretto, non è possibile generalizzare ampiamente i dati raccolti.

Il contatto con le persone, che più o meno abitualmente usano i servizi offerti dalle strutture, è stato di forte impatto emozionale, in quanto prima di iniziare le interviste non avevo mai avuto modo di conoscere personalmente quelli che definivo “barboni”.

Quello che mi ha stupito è stato che nel momento in cui entravo in relazione per porgli le domande, spesso capitava di uscire dalla griglia dei quesiti a risposta chiusa, ritrovandosi a parlare della loro vita.

In quegl’istanti coglievo la realtà dei fatti, cioè che dietro alla loro richiesta di cibo, di un posto dove dormire o di vestiti, ci sono uomini e donne come me: in particolare un giorno mi è capitato di intervistare un ragazzo di appena un anno più grande di me e ciò mi ha lasciato molto perplesso, sia riguardo alla sua condizione e sia a quanto, a volte, io dia per scontato cose che non tutti hanno la possibilità di avere.

Inoltre sono rimasto scosso quando, nel contatto con le persone adulte, ho riscontrato la loro frustrazione nel non aver più nulla e nel aver perso tutto ciò che nella vita si ritengono cose importanti (famiglia, casa, lavoro) e mi sono chiesto come mi sarei sentito io se, alla loro età, avessi perso tutto.

L’incontro con gli stranieri che hanno lasciato la propria patria, e a volte anche la propria moglie, per venir qui a cercare un posto migliore, per poi ritrovarsi senza nulla in mano, mi ha lasciato un senso di tristezza e di sconforto nei loro confronti, nonostante in alcuni di loro non abbia visto rassegnazione ma speranza.

Mi son sorpreso anche nel constatare il bisogno che le persone hanno di condividere le proprie sofferenze, non sopportandone più il peso.

È stato difficile l’impatto con coloro che erano in strada da poco tempo perché non avevano piena consapevolezza della propria condizione e, quando gli facevo le domande, sembrava come se si chiedessero “perché le sta facendo a me?”.

Mi son accorto che nel momento in cui le persone prendono consapevolezza della propria condizione, se costruiscono delle proprie abitudini e un proprio contesto sociale, nel quale riescono a trovare una normalità nonostante siano prive di casa.

Per questi motivi, anche solo i brevi contatti con chi ha bisogno, mi hanno aiutato a maturare la volontà di mettermi al servizio di chi non ha avuto la mia stessa fortuna.

Spero che questa breve ricerca sia servita a mostrare semplicemente che non vi è un confine così netto tra noi e “il povero”, ma non per scoraggiarsi, al contrario per cercare di aiutare il più possibile chi è in questa condizione.

Infatti aiutare non è così complicato come sembra, e se la maggior parte di noi riuscisse ad instaurare un legame anche solo con una persona senza dimora, come abbiamo già osservato, cambieremmo realmente la loro quotidianità.